
Per tanto tempo questo blog è rimasto sguarnito, perché le cose succedono, e si portano via tutto il tempo. Cose belle, desiderate, attese.
Oggi vivo in una casetta in affitto con il mio adorato compagno: è piccola ma piena di luce e la cucina è molto carina. Dal balcone della camera da letto, nelle giornate limpide, si vede la catena delle Alpi, e quella pedemontana. Così, quando al mattino tiro su la serranda, respiro e mi riempio gli occhi di quello spettacolo. Dal balcone si intravvedono gli alberi del parco della Pellerina, che è proprio a due passi: se ci si va verso le sette di sera, si incontra gente che corre o che porta il cane a passeggio.
Il quartiere è vivace, giovane, pieno di negozi. In casa tengo una campanula e un'orchidea. Il bagno è tutto arredato sui toni del giallo e dell'arancio. Non c'è l'ascensore e abitiamo al terzo piano, ma è un bene, perché ho già perso due chili.
Non avrei mai detto che ci sarei riuscita. Un anno fa, in questo periodo, lottavo con l'ansia la rabbia e la depressione che mi stavano portando via il cervello dopo una serie di guai, primo fra tutti un lavoro che amavo ma a cui avevo dovuto rinunciare perché a trent'anni non basta lavorare così, prendere lo stipendio quando capita, non avere un contratto ed essere pure svalorizzata come persona.
Ero convinta di non valere più nulla, di essermi meritata tutto, ero convinta che per me non ci sarebbe stato un futuro ma solo rassegnazione e inadeguatezza.
Però io non sono così. Sono una che quando arrivano le difficoltà tira fuori il meglio di sé e allora cos'era successo? Perché stavo così male?
Io credo che il dolore nella vita sia necessario. Non nel senso che dobbiamo tutti soffrire, ma nel senso che, se capita, accade per un motivo.
Io vivevo in un modo sbagliato, con emozioni sbagliate, rigidità, pregiudizi. Inseguivo un idiota ideale di perfezione che mi faceva camminare nella vita come un soldatino: senso del dovere, paraocchi, nessun dubbio, dritta alla meta. Ma quante cose ci si perde, così. E soprattutto: più un materiale è duro, più si spezza, si sbriciola, muore.
Ho dovuto fare un lungo percorso psicoterapico per capire che il lavoro era stata solo la causa scatenante di una sofferenza che covava da anni, dall'infanzia, dall'adolescenza, da sempre, e che mai mi aveva permesso di godere appieno del rapporto con gli altri e con me stessa.
Io sono così, fragile, sensibile, precisa, perfezionista, e non posso cambiare il mio carattere stravolgendolo completamente. Però posso migliorare la qualità della mia vita, imparare la leggerezza.
Questo è ciò che ho fatto nell'ultimo anno, e che continuo - e continuerò - a fare.
E così ho lasciato l'amata casa dei miei genitori per vivere l'esperienza della convivenza, che si sta rivelando bellissima, anche se un po' faticosa; non mi innervosisco più come prima, ma riesco a dare un peso e un senso maggiore alle cose; cerco di divertirmi e di stare bene con gli amici, godendo del loro affetto e della loro compagnia e cercando di capire il più possibile le esigenze degli altri. Lavo, stiro anche le camicie, sto imparando a cucinare. Sorrido di più, mi sento più serena e più forte.
Lunedì scorso ho ricominciato a spedire curricula qua e là: prima ne avevo quasi paura. Il timore di ritrovare quell'esperienza e quella brutta situazione mi bloccava. Il lavoro per me era diventato il sinonimo dell'angoscia. Ma quella situazione svaniva, sempre di più. Giorno dopo giorno. E ho capito di essere pronta, e mi sono detta: Sara, vai, e que sera sera.
Non so come finirà, ma so solo una cosa: un anno fa mi sentivo morire, oggi mi sento rinascere.
Bentornati nel mio blog.