giovedì 30 ottobre 2008

Volver: a working class heroine.


Stregata da Penélope nell'ultimo film di Woody Allen, e seguendo un vecchio consiglio, sono andata a recuperare un film di quasi tre anni fa, Volver, diretto magnificamente da Pedro Almodovar e nel quale Penélope è la star assoluta.
Almodovar rivelò ai tempi di avere cucito addosso al temperamento di Penélope il ruolo di Raimunda, volitiva e ribelle moglie e madre che si trova a fare i conti con la realtà più meschina e brutale, preservando sempre intatta la propria dignità e aggrappandosi all'unica certezza che possiede: la famiglia.
Una scelta registica lungimirante ma soprattutto di cuore - ché di cuore, pancia e lacrime sono fatti i film di Almodovar.

Partendo dal presupposto che tutto il cast, quasi interamente femminile (do you remember Tutto su mia madre?) regala interpretazioni splendide - grazie anche a uno script efficace e centrato -, il personaggio di Raimunda è reso indimenticabile dalla Cruz per tutta una serie di motivi.
In primis, si tratta di un personaggio reale, attendibile, colto nelle molteplici sfumature legate ai ruoli che ricopre quotidianamente: moglie infelice, madre giovanissima ma presente, instancabile lavoratrice, sorella premurosa, figlia ribelle.
In secondo luogo, pur mostrando una personalità di fuoco, leonina, rabbiosa, ma capace di un'abnegazione rara - il che potrebbe far pensare a certi stereotipi sul carattere latino della chica caliente e generosa, tanto amati a Hollywood (e di cui la stessa Cruz si è resa protagonista talvolta) -  la grandezza vera di Raimunda è nel mantenere lucidità e coraggio nelle situazioni più disperate, abituata com'è a rapportarsi con uomini nulli e meschini, totalmente dipendenti e incapaci di qualsivoglia protezione. Esatto contrario della nevrotica, inconsistente, genialoide Maria Elena del film di Allen, Raimunda non perde la calma. Mai.

E poi c'è la carismatica bellezza, il magnetismo, sottolineati magicamente da trucco, acconciature e abiti vistosi e di esplosiva sensualità (attendo, prima o poi, una sfilata che renda omaggio a questo personaggio, così inspiring, ricco di spunti visivi), in cui vengono banditi i colori neutri per fare spazio a un esuberante caleidoscopio dominato dal rosso.
Davvero, soltanto Penélope poteva dare corpo e carisma a un personaggio di tale spessore, protagonista di un coro di dolenti voci di donna, straordinarie, testimoni e portatrici di un tradizione, di una cultura, di un'atmosfera tanto cari al regista, che con questo film di ritorni (Volver sognifica appunto tornare), addii, superstizioni e poesia ha mostrato come sia possibile parlare di sentimenti con abbandono, con nostalgia, con rispetto, e mai - la televisione di oggi tristemente insegna - con cattivo gusto.

Leggere. Scrivere. Pensare.


Bellissimo scrivere dopo aver letto qualcosa di importante.
E' come se i pensieri, prima volatili e confusi nella mente, si sedimentassero e depositassero diventando qualcosa di più definito. Dopo aver letto la scrittura è stimolata, accelerata, intensificata. Ergo, pensare prima di scrivere è un'ottima abitudine.
Prima temevo i pensieri: più che altro, ne temevo le conseguenze. Non riuscendo a governarli, mi facevo sopraffare dal caos e dell'impotenza. Questo accade alla maggior parte delle persone, in quanto ci viene insegnato fin da bambini che agire è assai più importante che pensare. Il motivo è semplice: agire è più facile, più comodo, meno doloroso. Però c'è un però. Agire, sembra un paradosso ma è così, chiude tante porte davanti a noi, ci preclude la possibilità di conoscere noi stessi e, da questa conoscenza, trarre quella serenità che solo il coraggio della scoperta trasmette.
Adesso pensare mi piace tantissimo.
Non è più uno sforzo: è, anzi, come liberare le vie respiratorie, aprire dei canali. Ci sono delle attività che agevolano questa pratica: fare le pulizie, ascoltare musica, stirare, fare la doccia.
E poi c'è un momento magico, in cui tutti i pensieri si fanno chiari e scriverei mille pagine: quell'attimo prima di addormentarsi, quella sorta di dormiveglia, in cui la coscienza cede il posto al sogno, e, lasciando andare, la vera essenza di noi trova la sua voce, senza più barriere, sovrastrutture, pregiudizi.

sabato 25 ottobre 2008

The Amazing Adrien.




Nel tumulto di notizie di questo periodo, questa mattina sulla home page di Repubblica.it spiccava l'immagine in bianco e nero di un bimbo imbacuccato sotto la neve. Bellissima.
Fa parte di una mostra dedicata alle splendide fotografie che Silvia Plachy, artista dell'obiettivo celebrata nei più importanti musei del mondo, ha realizzato scegliendo per protagonista suo figlio, l'attore newyorkese Adrien Brody. 
Dalle immagini traspare l'amore ma anche la discrezione ammirata di una madre verso il suo specialissimo figlio, e stamattina, guardandole, mi sono commossa.
La mostra si terrà fino al primo Novembre, alla galleria Cedro26 di Roma.
A questo link http://seidimoda.repubblica.it/fotovideo/home/3395795 potete vederne alcune.
Che meraviglia.
Una boccata d'aria fresca e di amore nel bezzo dell'ennesima, difficile giornata.


mercoledì 22 ottobre 2008

Stronger than me.

E' come una giostra. Di quelle pericolose, però. Sali su, su, su. Poi, a tutta velocità, giù. Fin quasi a romperti il collo. 
Il momento peggiore è quando stai a testa in giù: il sangue va alla testa, il cuore batte all'impazzata, le gambe tremano. Se cadi da lì, ti sfracelli. 

This is how I feel.

Ci sono dei momenti realmente meravigliosi, mai provati prima. 
C'è la calma prima del temporale, quasi l'abulia. 

E poi di nuovo.

E su, e giù, e capovolta.

Il leitmotiv è sempre quello: la paura. Immotivata, irrazionale, paralizzante.
Arriva come un treno e comanda.
Ti fa sbandare, prende il binario sbagliato.

Ti fa andare fuori tempo, sempre.

martedì 21 ottobre 2008

What about Penélope?


Sono andata a vedere l'ultimo film di Woody Allen, Vicky Cristina Barcelona. Divertente, caldo, solare, inquieto, amaro. Nel complesso, direi un bel film. Tre donne e un uomo intimamente legati da passioni, più o meno svelate, e follie molto poco discrete. Mi piace parlarne non tanto per la trama, che è fondamentalmente quella di un quadrilatero amoroso, né per la strombazzatissima atmosfera lesbo che sottende alcune scene tra Scarlett Johansson e Penélope Cruz, né tantomeno per il fascino primitivo e magnetico del buon Bardém (che ottimo attore però!), né, infine, per la scontata contrapposizione tra maledettismo artistoide e logica piccoloborghese.
La chiave del film è la meravigliosa Penélope. 
Certo, Scarlett è molto brava, anzi è impagabile nell'apparire al contempo innocente e maliziosa, ingenua e scaltra: la forza dei suoi personaggi è molto spesso qui. Ma non c'è storia di fronte alla Cruz.
Fin dalla sua prima apparizione, sconvolta, scarmigliata, il trucco sfatto, gli occhi sgranati e sofferenti, la scena è tutta per lei. Un personaggio da folle nevrotica e genialoide (a essere precisi: "No talento, genio", dice lei stessa) perdutamente innamorata del suo uomo ma incapace di costruire con lui un rapporto sano, in cui non ci siano accoltellamenti e colpi di pistola.
Non il classico personaggio romantico, vincente - anche nella tragedia - proprio grazie alla sua "diversità", ma un essere fragile, fragilissimo, bisognoso di amare ed essere amato ma capace di null'altro che non sia la sua autodistruzione. Chi conosce la nevrosi la rivedrà incarnata in questa volitiva, carismatica piccola donna, rivivrà con pari intensità i momenti della rabbia e quelli della sconfitta.
Ecco cosa volevo dire, al di là della recensione, che lascia un po' il tempo che trova: arte è quando la vita reale, quella che tocchiamo e vediamo e respiriamo ogni giorno, viene rivissuta e sublimata e resa poetica, in un modo grazie al quale tutti, in maggiore e minore misura, ci si possano rispecchiare.
Con tale amore Woody Allen ha creato il disgraziato personaggio di Maria Elena, e con tale efficacia e passione Penélope Cruz l'ha interpretato, da avere intravisto la scintilla della vita vera su un semplice schermo cinematografico.

Silky-smooth Zohan.


Può un film di rara incongruenza, imbecille nel senso migliore del termine, tenere inchiodati a una poltrona con la pancia in mano per quasi due ore? Può, può. Soprattutto se si tratta dell'ultima strepitosa performance di Adam Sandler, attore di notevole spessore purtroppo un po' sottovalutato in Europa.
Zohan, questo il titolo del film - terribile il sottotitolo italiano, come sempre: "Tutte le donne vengono al pettine" - può scatenare le reazioni più disparate, fin dalla visione della (inguardabile) locandina: un Adam Sandler in posa improponibile, l'enorme pacco in bella vista, i capelli phonati di fresco, shorts sbrindellati, orribili ciabatte e una kitchissima t-shirt di Mariah Carey epoca Heartbreaker
La storia è semplice quanto assurda: Zohan è il più temibile degli agenti del Mossad, dotato di un innegabile cattivo gusto e stallone di gran fama. Il guaio è la sua passione segreta: Zohan aspira a diventare un grande coiffeur, vuole fuggire, vuole ricostruirsi una vita a New York, lontano dalla guerra, vuole rendere le persone silky-smooth, di seta morbida. Così farà, trasformandosi nel richiestissimo Scrappy Coco, meraviglioso parrucchiere per signore old-fashioned, che, oltre a taglio e piega, offre un servizio ben più gradito. Ma il passato è in agguato...
Kitsch e politicamente scorretto com'è, il film mette in ridicolo una questione serissima come quella dell'odio israelo-palestinese, senza usare troppe metafore e utilizzando una tale quantità di luoghi comuni da far arrendere, esausto e divertito, lo spettatore più resistente. Una girandola di invenzioni nonsense, un ritmo indiavolato e degli attori spassosi e bravissimi: da Sandler, che conferma il suo talento comico accettando un ruolo inaccettabile, anzi divertendosi un mondo nel prestare una esplosiva fisicità e un caricaturale accento ebraico al suo personaggio, a un divertentissimo John Turturro nei panni del più acerrimo nemico palestinese di Zohan (da non perdere la parodia di Rocky...), alla deliziosa Emmanuelle Chriqui, padrona palestinese dell'hair parlour dove Zohan metterà in mostra il suo talento.
Le scene cult si sprecano, tanto da far diventare Zohan-addicted fin dalla prima visione. Si ama o si odia, Zohan: tutto sta nell'atteggiamento dello spettatore. Unico requisito richiesto: saper spegnere il cervello, e lasciarsi andare alla risate più sconvenienti, idiote e terapeutiche della stagione.
Ps: in attesa di Tropic Thunder, con il trio Stiller-Black-Downey Jr.

venerdì 10 ottobre 2008

If there is some confusion, who's to blame?


Ci sono dolori che valgono più degli altri? Me lo sono chiesta spesso. Il dolore per la morte o la malattia di una persona cara, è indubbio, è infinitamente più grande se confrontato con il dolore provocato dalla fine di un amore, o da una delusione personale (amici, lavoro, famiglia). Eppure i conti non mi tornano. Non sarà che ciò che davvero cambia è la percezione del dolore?
In questi giorni mi è capitata una cosa spiacevole. Durante un confronto con una persona cara, ho avuto l'impressione che, nel profondo di sé, considerasse quanto mi è avvenuto negli ultimi mesi un qualcosa di poco conto - d'altronde, non ho tutto quello che si può desiderare? Una famiglia splendida, un fidanzato presente e innamorato, sono io stessa innamorata, ho amici che mi vogliono bene, la salute fisica, un relativo benessere economico? Già. Torniamo alla famosa "tabella di marcia" della cara Noemi. Chi ha stabilito i parametri? Perché qualcosa deve essere per forza giusto o sbagliato? In relazione a che cosa, poi?
A quel punto, mi è tornato in mente un passaggio di uno dei miei libri preferiti, "Il Maestro e Margherita". Nello specifico, il passaggio in cui Bulgakov ci introduce la protagonista femminile, Margherita appunto.
"Era bella e intelligente.A ciò bisognava aggiungere ancora una cosa: con sicurezza è possibile affermare che molte donne avrebbero dato qualsiasi cosa pur di cambiare la loro vita con quella di Margherita Nikolaevna. Margherita, trent'anni, senza figli, era la moglie di un noto specialista che aveva persino fatto delle importanti scoperte di portata nazionale. Suo marito era giovane, bello, buono, stimato, e adorava la moglie. Margherita Nikolaevna e il marito occupavano da soli tutta la parte superiore di una splendida palazzina con giardino in uno dei vicoli vicini all'Arbat. Luogo incantevole! Chiunque può convincersene se desidera recarsi in questo giardino. Basta che si rivolga a me, gli darò l'indirizzo, gli mostrerò la strada, la palazzina è intatta ancora oggi.
Margherita Nikolaevna non aveva bisogno di denaro. Margherita Nikolaevna poteva comprare tutto quello che le andava a genio. Tra i conoscenti del marito c'erano persone interessanti. Margherita Nikolaevna non aveva mai toccato i fornelli. Margherita Nikolaevna ignorava gli orrori della vita in un appartamento comune. In una parola... Era felice? Non un solo istante! Dal momento in cui, diciannovenne, s'era sposata ed era andata a finire nella palazzina, non aveva conosciuto la felicità. Oh numi, miei numi! Di cosa aveva mai bisogno questa donna?! Di cosa aveva bisogno questa strega lievemente strabica da un occhio, che quel giorno di primavera s'era ornata di mimosa? Non lo so, è una cosa che ignoro. Evidentemente aveva detto la verità, aveva bisogno di lui, del Maestro, e non della palazzina gotica, e non di un giardino privato, e non di soldi."
Bulgakov non giudica la sua protagonista, ce la racconta con sensibilità, con tenerezza persino. Sarebbe stato un gioco troppo facile, per lui come per chiunque altro, dare addosso alla poveretta, tacciandola di essere viziata, annoiata, in cerca di facili emozioni.
La vita è fatta di infinite sfumature. Ognuno cerca le proprie risposte come crede.
A Margherita mancava l'Amore, quello vero. A me, cosa manca? Poco importa, se non a me. Ciò che importa è riflettere su una semplice verità: la completezza, la perfezione non fanno parte della vita umana. Manca sempre un tassello al nostro puzzle. La differenza tra un essere umano e un altro sta nella capacità di accettare questa verità. Chi ne è capace, per favore, sia tollerante nei confronti di chi ci sta provando, ma non ce la fa. O quantomeno eviti di puntare il dito per evitare che lo sguardo degli altri smascheri le sue, di mancanze.

giovedì 9 ottobre 2008

Paris is burning.


Difficile parlare di moda quando i tempi sono complessi e drammatici come quello che il mondo occidentale sta dolorosamente vivendo. Eppure è proprio in questi momenti che il bisogno di leggerezza si impone potentemente, a ribadirci la nostra natura di esseri umani capaci sì di grandi errori, ma in grado di regalare bellezza e sogni laddove non sembrerebbe più esserci ragione di sognare. La Fashion Week conclusiva della stagione P/E 2009, in tal senso, è stata il manifesto della capacità incantatoria della moda, della sua teatralità. Perché se è vero che Milano è la capitale indiscussa del pret-à-porter mondiale e del sistema economico che vi ruota attorno, Parigi è da sempre il regno del sogno, delle magie sartoriali, della haute couture. E quest'anno, quasi in contrappasso alla drammaticità del momento, ha regalato sfilate di bellezza assoluta, veri e propri spettacoli di magia, che hanno riconciliato gli scettici con l'idea stessa di Moda
A partire da Giambattista Valli, che con ironia e rigore ha reinterpretato il concetto di femminilità, così moderna eppure così rétro: i suoi gonnelloni anni Cinquanta sono veri capolavori di ingegneria. E che dire di Chanel che, dopo qualche stagione stancamente ripetitiva, ha proposto infinite variazioni sul tema-tailleur accorciando le giacche o aprendole all'altezza dell'ombelico, ha giocato con i tre colori base rosa, nero e bianco, ha reinterpretato poliedricamente uno dei must della maison, il little black dress, e si è permesso di ironizzare sull'idea stessa di shopping bag?
John Galliano ha divertito per l'ennesima volta proponendo una sua personale visione della storia britannica e sorprendendo per lo strepitoso make-up, in cui bambole-cocottes imparruccate e dalla pelle di porcellana rendevano omaggio a The Queen e all'amatissimo (da Galliano) teatro kabuki.
Lo spettacolo si è chiuso con un tris d'assi al suo meglio.
Lanvin, con le sue meraviglie architettonico-sartoriali, ha lavorato sul concetto di less is more ma non in senso minimalista, quanto nel proporre abiti di grande effetto realizzati esclusivamente con cuciture strategiche e semplicissime, tutte giocate su ombre e volumi; Louis Vuitton ha aggiornato il mood chic tipicamente parigino con un viaggio nel tempo e nello spazio, sospeso tra gli Eighties e le suggestioni africane: dopo anni un po' in sordina riecco le protagoniste del marchio, le borse, che, in linea con la tempra aggressiva e femminile delle runway girls, ripropongono i classici simboli della maison in chiave animalier, con tocchi argentei e colorati di grande effetto; e infine Miu Miu, vera sfilata-capolavoro dell'intera stagione. 
Miuccia Prada ha mantenuto la semplicità e se vogliamo la classicità nel taglio di abiti e accessori - con qualche eccezione nelle gonne destrutturate, metà lunghe metà corte, e nei tessuti poveri e laceri di semplici quanto efficaci abiti beige -, ma ha rischiato tutto su suggestioni arty a 360 gradi: dai mosaici greco-romani riproposti su abiti e zeppe, alle sporcature graffiti e action painting su gonne e décolletées, quasi un omaggio al grande Gerhard Richter. Il rischio ha pagato, perché, quasi come per magia, tutte queste influenze suonano armoniche e compiute, appaiono nel posto giusto, quello in cui dovrebbero stare. 
Una lezione di moda che ha chiuso con intelligenza e classe un mese di sfilate denso, divertente, irritante, imbarazzante, ma vivo, volesse il cielo.

Riflessione sul Dolore. Parte 2.

Essere foglia, e vento. Ecco cos'ho imparato dalla mia esperienza di dolore. Lasciare andare, abbandonarsi al flusso degli eventi, ma al contempo provocare un cambiamento, imporre il proprio ritmo. Ci sono infiniti tipi di dolore, tanti quanti sono gli essere umani. Eppure, quale che sia la causa, sorprende accorgersi che la percezione psicologica del dolore è sorprendentemente simile.
Sono tante le cause che producono dolore: un lutto, un abbandono, una delusione. Tante piccole grandi morti che ribaltano il nostro sentire imponendo un cambiamento.
Perché doloroso è il trasformarsi del bruco in farfalla. La trasformazione, il passaggio, è dolore.
Nel mio caso, la profonda delusione sul lavoro ha preso le sembianze di una totale messa in discussione della mia vita, del mio valore, dei miei valori. Nel racconto del dolore, emerge lo stacco netto tra il prima e il dopo: come una centralina che va in corto circuito, la mia psiche ha imposto una pausa. Mancava un'educazione al sentire, prima. La frenesia, l'iper-attività, annullava anesteticamente i momenti di riflessione, di percezione delle proprie sfumature emotive, non immaginando però che stava creando i presupposti affinché quegli stessi momenti divenissero necessari e vitali.
Il dolore insegna, imponendo appunto una pausa, a sentire fortemente e con coscienza. Insegna una paradossale disciplina della lentezza, paradossale in quanto non-disciplina. Insegna a tollerare l'errore, la pausa, la non efficienza, la mancanza. Insegna a tentare, sbagliando.
Insegna.

domenica 5 ottobre 2008

Noemi val bene una messa.


Noemi è una persona, un'amica speciale. Qualche giorno fa, sul suo blog, riflettendo su una problematica generazionale che ci tocca molto da vicino, ha sintetizzato con efficacia e intelligenza in cosa consiste quella dolorosa lontananza tra noi e la generazione dei nostri genitori, che tanto ci fa sentire fuori posto. Con la sua autorizzazione, mi permetto di riportare letteralmente le sue parole. Leggetele e riflettete. Sarebbe interessante aprire un dibattito in materia...

(...) "A un certo punto è scattata l'esplosione del giudizio gratuito. Molti si sentono autorizzati a commentare i tuoi tempi, le tue scelte di vita, le tue difficoltà...

La tabella di marcia sarebbe (secondo una mia personale statistica stilata in seguito a mesi e mesi di suddetti commenti...):

Per le femmine:

22/23 anni: laurea*
24: lavoro ("che ci vuole: io alla tua età ero già sposata, avevo un lavoro fisso ed ero incinta di 6 mesi")
25:matrimonio (se lo stipendio è troppo basso: "eh bè fatti aiutare da mamma e papà")
26: figlio ("cosa aspetti? Non vorrai mica fargli da nonna...sempre che tu riesca a rimanere incinta")
30: avanzamento di carriera(in caso contrario: "non hai carattere")
32-: figlio + carriera

Per i maschi, invece:
23/24:laurea*
25-30: divertimento ("calcio, calcetto e fantacalcio")
30/31: matrimonio (oppure convivenza: "non farti incastrare")
34: figlio ("è lei che ha insistito")
35-: carriera

* non in tutti i contesti ("hai studiato ma non ti è servito a niente. Andavi a lavorare a 18 anni e a quest'ora avevi un marito e 3 figli").

Sembrano le analisi del sangue: se non stai nei parametri vuol dire c'è qualcosa che non va, sei una persona debole e sospetta."

PS: Noemi spero che la foto che ho scelto ti piaccia! In caso contrario faccio quello che vuoi! Ti voglio bene, tanto!