giovedì 22 gennaio 2009

Cineparadise. 5. Sette Anime.


Di Muccino non mi dispiacciono le idee cinematografiche: ha una capacità di intuire l'essenza dei tempi comune a pochi. Ne L'ultimo bacio, era la mancanza di responsabilità cronica di certi trentenni; in Ricordati di me, era la crisi dell'isituzione matrimoniale e l'ansia di celebrità delle nuove generazioni. 
Poi lo svolgimento del tema era un'altra cosa: ottimi attori, ma resi nevrotici da una direzione schizofrenica e "di corsa". Scene di isteria come se piovesse. Ecco, di corsa mi sembrano tutti i film di Muccino. Ansiogeni. E troppo melodrammatici.
Poi è arrivato il suo sogno americano: Will Smith si dichiara suo fan e sogna di essere diretto da lui. Un sogno bellissimo, di cui da italiana sono stata molto contenta (a differenza di molti).
Detto, fatto: La ricerca della felicità sbanca i botteghini e convince i critici oltreoceano, raccontando meglio di un americano il sogno di quel Paese e regalando a Will Smith, bravissimo ma - guarda un po'! - sempre di corsa, per tutta la durata del film, una nomination all'Oscar come migliore attore protagonista.
L'esordio USA è dunque un nuovo inizio per il regista italiano, che smorza un certo pessimismo moralista in favore del racconto di un sogno conquistato con l'umiltà e il sacrificio.
Tutto sommato un buon film, efficace nella brutalità di certe scene, poi riscattate dall'happy end. Una storia buonista, direbbe qualcuno. Però ben riuscita, ben fatta, emozionante. Lì, si piangeva.
Poi, quest'anno, è arrivato Sette Anime. L'accoppiata attore-regista ha rinnovato il sodalizio, ma non ha colpito altrettanto nel segno.
Dico fin da subito che mi sono accostata in modo molto razionale a questo film, portandomi dietro anche il poco amore che nutro nei confronti del cinema di Muccino. A me lui sta pure simpatico, però la sua idea di cinema non fa bene al mio modo di essere. Mi piace molto Will Smith, invece, e se c'è una cosa di Sette Anime che ho amato molto sono i suoi due protagonisti: Will Smith appunto, e Rosario Dawson - bella, bellissima in modo imbarazzante, e davvero brava. Will Smith si porta in giro, per tutta la durata del film, un personaggio criptico e pieno di ombre, gravato da un carico di colpa che si svela con eccessiva lentezza. Ecco il primo problema: la lentezza. Va bene l'elogio della lentezza, va bene l'attitudine zen, ma qui si esagera. La prima parte del film mette a dura prova il mio sistema nervoso: di che sta parlando? Perché fa quello che fa? Perché quegli inutili flashback, che nulla spiegano e nulla muovono? Poi a un certo punto è chiaro dove vuole andare a parare, anzi chiarissimo, e non lo svelerò a chi il film non l'ha visto. Dico solo che Beautiful, che seguo con ardore da groupie da quando ho undici anni, quell'intuizione lì l'ha avuta un po' di tempo fa. E sto parlando di Beautiful, non di Kubrick.
La colpa, il riscatto, il sacrificio, il percorso di espiazione quasi francescano del protagonista erano ottime intuizioni - come tutte le intuizioni di Muccino - ma svolte con una tale superficialità, cercando la lacrima facile e l'emozione scontata, che viene il nervoso a pensare a quale occasione sia stata sprecata.
Mi vuoi fare emozionare, mi vuoi spiazzare? E allora rischia, vai fino in fondo. Sorprendimi. Sii più diretto, non stare a girare e rigirare attorno a una cosa che tanto abbiamo capito tutti. E non basta il volto lacerato di un quasi irriconoscibile Will Smith, non basta la luce di Rosario Dawson a farmi passare l'incazzatura, volevo più verità e meno banalità e non l'ho avuta. Ma forse ho sbagliato film.
Non ho versato una lacrima che sia una, e credetemi di singhiozzi in sala ne ho sentiti tanti. Vuol forse dire che non sono umana? Chi mi conosce sa che non è così. E allora preferisco che, se melodramma dev'essere, che sia di Almodovar. Altrimenti, meglio tornare coi piedi per terra e fare per bene ciò che si sa fare. Riconoscere i propri limiti è segno di forza, non di debolezza. Anche se so che labile è il limite tra capacità di rischiare e incoscienza. Ecco: Muccino in questo film non ha saputo riconoscere i propri limiti e, al contempo, non ha rischiato. Strada per diventare davvero grande ce n'è ancora.

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